L’URBE AL TEMPO
DI PUBLIO AURELIO

Pensando alla Roma dei Cesari, la nostra fantasia, alimentata dall'arte neoclassica, dai plastici dei musei e dai kolossal hollywoodiani, corre subito al candore del marmo, come se l'Urbe fosse stata un'immensa distesa biancheggiante di porticati e obelischi.

In realtà, il marmo era sì presente, ma soltanto come uno dei tanti materiali da costruzione, e neppure tra i più diffusi. Roma, infatti, era sostanzialmente una città di mattoni, a volte nudi, più spesso intonacati in quelle tinte vivaci che gli architetti contemporanei usano invece con tanta parsimonia. E colorate erano pure quasi tutte le statue, le colonne, i fregi e i portoni delle case private, come ci testimoniano inconfutabilmente i residui di pigmento trovati su numerosi edifici.

Una città piena di colori, dunque, ma anche asimmetrica, improvvisata e caotica, al pari di tutti gli agglomerati urbani cresciuti troppo in fretta e senza alcun piano regolatore; ben diversa, quindi, dalle altre colonie fondate dai romani, concepite in base a una rigida geometria attorno all'intersecazione perpendicolare delle due strade principali, il cardo e il decumano massimo.

L'Urbe, insomma, era una grande metropoli, modernissima per alcuni aspetti - come, ad esempio, la rete di fognature -ma per altri versi assai simile alle odierne capitali dei Paesi in via di sviluppo: al tempo della sua massima espansione, ci vivevano un milione e mezzo di abitanti, due terzi dei quali di sesso maschile, per via dell'abbondanza di schiavi e dell'esposizione delle femmine neonate.

Un milione e mezzo di persone, accatastate in altissime insulae pericolanti, enormi condomini che potevano contare fino a cinque, sei e persino sette piani, divisi da sottili graticci di legno in minuscoli appartamenti d'affitto privi di focolare, di canna fumaria e di servizi igienici. Queste torri in precario equilibrio poggiavano spesso su fondamenta inadeguate, senza contare che i proprietari, in barba agli editti imperiali, alzavano gli edifici oltre il limite consentito, aumentando il pericolo di crolli.

Le insulae comunicavano reciprocamente attraverso un reticolo di balconi e ponteggi di legno, i quali incombevano sui passanti col loro carico di ceste, biancheria stesa, vasi colmi di erbette per cucinare. Per di più, i vicoli tra edificio ed edificio erano strettissimi. E ovvio, di conseguenza, che la Roma antica cadesse facilmente preda del fuoco: non a caso, il corpo dei vigiles nocturni aveva prima di tutto il compito di prevenire gli incendi, e soltanto in seconda istanza quello di reprimere la criminalità. Tale, a grandi linee, appariva la situazione ai tempi di Claudio; peraltro, dopo il disastroso incendio dell'epoca neroniana, i quartieri arsi dalle fiamme vennero ricostruiti con criteri più razionali, lasciando un ampio margine di spazio tra un edificio e l'altro, in modo che potesse passarvi almeno il carro dei pompieri.

I romani, tuttavia, non si preoccupavano troppo della stabilità delle loro precarie dimore, perché vivevano la maggior parte della loro giornata all'aperto, nelle strade, nelle piazze e negli edifici pubblici; molti non rientravano nemmeno per il pasto di mezzogiorno, che veniva consumato nei thermopolia e nelle popinae - i fast-food del tempo - o sui marciapiedi, lungo i quali si potevano acquistare salsicce, torte di ceci e lupini lessi dai venditori ambulanti.

Ciò nonostante, la vita nelle grandi insulae non era per nulla agevole, soprattutto per coloro che occupavano il sottotetto. Più l'inquilino abitava in alto, più i disagi aumentavano: le soffitte costituivano il rifugio dei diseredati e dei sottoproletari, costretti a dormire sotto tegole sconnesse da cui entrava la pioggia, e a portarsi a braccia l'acqua potabile, salendo a uno a uno i gradini della scala, la quale consisteva talvolta solo in un'oscillante sovrastruttura esterna di legno.

I privilegiati che abitavano in una grande domus unifamilia-re, invece, godevano dell'acqua corrente, di servizi igienici privati e persino del riscaldamento, ma soltanto al pianterreno e a costi proibitivi. Di queste case padronali, ampie e ricche, a Roma ne esistevano circa 1700. Non tutte, comunque, erano a un solo piano o riservate a un'unica famiglia; molte fungevano da base per gli appartamenti ai piani superiori e si trovavano decurtate delle stanze affacciate sulla strada, che venivano affittate come negozi o botteghe artigiane.

A fronte di un'edilizia privata piuttosto carente, almeno per gli strati più disagiati della popolazione, esisteva una grande profusione di edifici pubblici, vasti, comodi e tanto solidi da resistere ai secoli, anzi ai millenni, dato che alcuni di essi sono ancora in piedi, adibiti agli usi più vari.

A costruirli provvedevano non solo gli organi dello Stato -le tasse si pagavano, e care - ma anche parecchi generosi mecenati. Del resto, nessuno tra gli uomini politici, prima, e tra i Cesari, poi, avrebbe mai rinunciato a legare il proprio nome a un monumento di qualche utilità, facendone dono al popolo: sorsero così le grandi basiliche dove si discutevano gli affari e si amministrava la giustizia; i teatri, come quello Pompeo, capace di 40.000 posti, la cui struttura è ancora visibile nelle costruzioni che ne hanno preso il posto, o quello, a tutt'oggi quasi integro, dedicato a Marcello; le arene per i ludi gladiatori, i portici, i giardini e infine i grandi mercati, tra i quali il Macellum di Livia e, di epoca leggermente posteriore, quello splendido esempio di centro commerciale dell'antichità Costituito dai Mercati traianei, una struttura capace di reggere ancora il confronto con i più moderni edifici del settore.

Naturalmente, in una civiltà che coniugava senza complessi i piaceri del corpo con quelli dello spirito, non potevano mancare né i bagni, né le biblioteche

Tra le tante terme dell'Urbe, le più celebri furono quelle di Agrippa, nelle quali si poteva entrare a titolo gratuito. Si noti, comunque, che accedere a un comune bagno a pagamento costava invero assai poco, solo un quarto di asse, cioè un ventiquattresimo della cifra occorrente per la spesa quotidiana di una modesta famiglia, schiavi compresi.

Uno dopo l'altro, i Cesari (Nerone, Domiziano, Caracalla...) fecero a gara nel costruire immensi stabilimenti balneari, le cui dimensioni ciclopiche non mancano di suscitare stupore persino ai giorni nostri: basti pensare che Michelangelo ricavò l'intera Chiesa di Santa Maria degli Angeli da una sola aula delle Terme di Diocleziano!

Anche le esigenze culturali, infine, non venivano trascurate. A Roma, in tarda età imperiale, si contavano ben ventotto biblioteche pubbliche, delle quali molte già esistenti dai primissimi anni dell'Impero. La prima venne istituita, all'inizio della nostra era, da Asinio Pollione, che la collocò sulla sella tra il Quirinale e il Campidoglio, uno sperone di roccia fatto poi radere al suolo da Traiano, al momento della costruzione dei famosi mercati; la biblioteca più grande, dedicata ad Apollo, fu invece un dono personale al popolo romano dell'imperatore Augusto, alla cui generosità, non aliena da intenti di propaganda, si devono anche i portici di Ottavia, il tempio di Marte Ultore e il gigantesco orologio del Campo Marzio, che adibiva a gnomone addirittura un obelisco egizio.

Tante meraviglie, dunque. Ma come cercarle nel caos dell'Urbe sterminata? A Roma, infatti, non sempre esisteva un indirizzo da annotarsi, proprio come accade ancor oggi in alcune grandi città orientali. Le strade principali e quelle più frequentate avevano naturalmente un nome: così la Via Sacra, il Clivio Capitolino, il Vico Tusco, il Vicus Patricius, L'Argiletum e la Via Lata, senza contare le grandi arterie (Appia, Latina, Tiburtina, Cassia, Salaria, Aurelia, Prenestina) che si dipartivano dalle mura. Il problema, però, cominciava con i vicoli e le viuzze anonime: in quel caso, occorreva far riferimento al monumento più vicino, indicando ad esempio la “terza insula dopo l'Arco di Giano”, o la “casa nell'angolo di sinistra della Porta Caelimontana”, oppure la “bottega dietro il tempio della Speranza vecchia”, e così via.

Non solo era difficile trovare un luogo preciso, ma ardua impresa era pure raggiungerlo, in una città immensa dove, durante il giorno, era vietato il transito di tutti i veicoli trainati da animali, salvo il carro delle Vergini Vestali. Il decreto di Cesare, che nelle ore diurne trasformava l'intera Roma in un'isola pedonale, rimase in vigore per secoli. Gli approvvigionamenti - per un milione e mezzo di abitanti! – avvenivano quindi durante la notte, che di conseguenza era, oltre che molto buia, anche terribilmente rumorosa.

Come se non bastasse, nell'Urbe i prezzi erano altissimi: l'affitto di un'umida soffitta sotto i tetti costava quanto una bella casetta di campagna, con tanto di podere annesso.

Caotica, sovraffollata, disagevole e per di più molto onerosa: l'antica Roma poteva essere qualunque cosa tranne che una città a misura d'uomo. Eppure le genti di tutti i Paesi sognavano di viverci...

Morituri te salutant
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